Sphinx
Sphinx voice, sound, choreography,performance- Melissa Lohman XI Festival Troia Teatro 2016 Teatro Studio Uno, Rome 2017 The work is based on the mythological figure of the sphinx and her incessant riddles. A figure is revealed, out of the shadows around the edges of the space. A disjointed body, more animal than human, moves in jerks and twitches. She listens to something. She whispers a lullaby of forgotten memories, tells indecipherable stories. She remains at the confines of known territory. It was when it will be. It will be when it was. It was what it was when it was. It will be what it was when it will be. It will be what it will be when it will be. It will be what it will be when it was. Was it? |
Sfinge voce, suoni, coreografia e performance- Melissa Lohman XI Festival Troia Teatro 2016 Teatro Studio Uno, Roma 2017 Il lavoro è basato sulla figura mitologica della sfinge e i suoi enigmi incessanti. Una figura si rivela, dalle ombre ai bordi dello spazio. Un corpo sconnesso, più animale che umano, si muove a scatti. Ascolta qualcosa. Bisbiglia una cantilena di memorie smarrite, racconta storie indecifrabili. Rimane ai confini del territorio conosciuto. Era quando sarà. Sarà quando era. Era quello che era quando era. Sarà quello che era quando sarà. Sarà quello che sarà quando sarà. Sarà quello che sarà quando era. Era? |
Review
Teatro e Critica March, 2017 Arcalòh Company. The enigma written on the body of the Sphinx. Sergio LoGatto (translated from Italian) Melissa Lohman’s (with Flavio Arcangeli, Arcalòh company) dance is a delicate and mysterious experiment at the Teatro Studio Uno in Rome. “The upward buoyant force that is exerted on a body immersed in a fluid, whether fully or partially submerged, is equal to the weight of the fluid that the body displaces and acts in the upward direction at the center of mass of the displaced fluid”. As I wait to see Sphinx by Arcalòh Company, I find Archimede’s principle in my hands as I flip through a random book among the many lining the shelves in the foyer of Teatro Studio Uno, Rome. In the small Mirror Studio, along with too few audience members, we slide down into a rarified experiment, written for one body. That body belongs to Melissa Lohman, an American performer residing in Rome where she collaborates with Flavio Arcangeli, who in this case, designed the lighting. In the darkness, an undefinable object of a solid archaic form stands out, like a small iridescent totem. As our eyes get used to the dark, a crouching female body slowly becomes perceptible, moving her arms back and forth like a dog digging a hole. A dim light rises little by little to illuminate the performer, who then stands up and moves joints, torso and neck, almost as if passed through by a fluid which leaves her no peace. Her pale eyes, blurred and without expression, seem to focus on nothing. The direction of the gaze is not connected to the movements of the body, dressed in wide pants and a slight dark brown top. Silence is the other protagonist, so tense as to inhibit even the smallest movement among the audience. The observers are hypnotized by oscillating movements, as if unable to identify that vertical push demonstrated by Archemide. Fracturing the silence is an off stage voice: on one note, barely emitted and at risk of breaking, the words “It was” are introduced. Now the totem is illuminated and it is in all aspects, an omphalos, a stone artifact which symbolizes the center, the navel of a geography. It’s golden surface, here calls out a sort of challenge. The dancer turns her back towards us and becomes pure flesh, leaving our eyes to see every muscle around a spine which appears and disappears, like a serpent, prey to a restless mutation. The movement of the hands articulates hermetic gesture, revealing a channel of communication which has nothing to do with the spoken word. The dance proceeds between rotations of the neck and a superb and coherent asymmetry of the limbs. The Sphinx, “the guard who resides at the border of the unconscious” according to the director’s note, composes her enigma thusly: the same one written on a page given to me at the entrance which only now comes to my mind. “It was” and “It will be” are the two pillars that squelch any logic of positioning in time. Melissa Lohman talks with the off stage voice, first used to learn a sort of dictation of existence and then contradicted with a simple question “was it?”. By inverting the order of the words, the Sphinx herself becomes disoriented. Was and Will be overlap and extinguish each other’s meaning as the seated performer moves downstage, advancing by shifting her weight from one gluteus to the other. In Sphinx there is a return to a somber reflection which had surprised us in Hesitations, the “jam session” among Lohman, Arcangeli and the poetry and spoken word of Marcello Sambati. In both of these works there is a play on subtracting time and space, but what was then a dialogue among humans now becomes an absurd soliloquy, reorganized for magnetic assonance between the floor and the walls. Never as in these precious moments are we required to be more present. In this radical experiment that actualizes a paradox only possible in the theater, leaving the spectators the complete liberty of interpretation (an exquisitely human trait) and then to betray it immediately when they find themselves immobile and prey to the firm rule of the most animal of functions: attention. |
Recensione
Teatro e Critica marzo, 2017 Compagnia Arcalòh. L’enigma scritto sul corpo della Sfinge. Sergio LoGatto Al Teatro Studio Uno di Roma la danza di Melissa Lohman (con Flavio Arcangeli formano la Compagnia Arcalòh) è un esperimento delicato e misterioso. «Ogni corpo immerso parzialmente o completamente in un fluido riceve una spinta verticale dal basso verso l’alto, uguale per intensità al peso del volume del fluido spostato». Il principio di Archimede mi torna tra le mani sfogliando un libro a caso tra i molti accatastati sugli scaffali, nel foyer del Teatro Studio Uno di Roma, mentre aspetto di entrare a vedere Sfinge, della Compagnia Arcalòh. Nella piccola Sala Specchi, insieme a troppo pochi altri spettatori, scivoliamo giù in un esperimento rarefatto, scritto per un solo corpo, quello di Melissa Lohman, performer americana di stanza a Roma, dove collabora con Flavio Arcangeli, che qui cura il disegno luci. Nel buio spicca, come un minuto totem iridescente pur se non ancora illuminato, un oggetto indefinibile, dalla solida forma arcaica. Mentre l’occhio si abitua all’oscurità, sul fondo diviene via via meglio percettibile un corpo di donna accovacciato, che muove avanti e indietro le braccia come un cane scaverebbe una buca. Una luce tenue sale poco a poco a illuminare la performer, che si alzerà poi in piedi e sposterà arti, busto e collo quasi attraversata da un fluido che non le lascia pace. I suoi occhi chiari, sgranati e senza espressione, sembrano non mettere a fuoco nulla, la direzione dello sguardo non è coerente con gli spostamenti del corpo, vestito di pantaloni ampi e di un leggero top marrone scuro.Il silenzio è l’altro protagonista, talmente teso da inibire anche il minimo movimento degli spettatori, ipnotizzati da movenze oscillatorie, come persi a individuare quella spinta verticale dimostrata da Archimede. A fratturare quel silenzio è una voce off: su un’unica nota, emessa appena e sempre a rischio di spezzarsi, si innestano le parole «I was», “io ero”. Ma adesso il totem è in luce, ed è in tutto e per tutto un omphalos, un artefatto di pietra che segna il centro, l'”ombelico” di una geografia, la sua superficie dorata chiama qui una sorta di confronto. Allora la danzatrice si volta di spalle e diviene pura carne, lasciando ai nostri occhi solo la mostra di ogni muscolo intorno a una spina dorsale che appare e scompare, come un serpente preda di un’inquieta mutazione. Il movimento delle mani scandisce una mimica ermetica, scava un canale comunicativo che non ha niente a che fare con la parola, mentre la danza procede tra rotazioni del collo e una superba e coerente asimmetria degli arti. Così la Sfinge («guardia che risiede ai limiti dell’inconscio», secondo le note di regia) compone il suo enigma, lo stesso stampato su un foglio che, solo ora mi sovviene, mi avevano lasciato all’ingresso: «It was» e «it will be» (“sarà”) sono i due vertici che schiacceranno ogni logica di posizionamento nel tempo, mentre Melissa Lohman dialoga con la propria voce off, ora usata per imparare una sorta di dettato dell’esistenza, ora contraddetta con una semplice domanda («was it?»; “lo era?”) che, invertendo l’ordine delle parole, manda in tilt la Sfinge stessa. Was e will be si sovrappongono cancellandosi il senso a vicenda, mentre la performer guadagna il proscenio da seduta, avanzando grazie allo spostamento di peso da gluteo a gluteo. In Sfinge torna il raccoglimento sepolcrale che già ci aveva sorpresi in Esitazioni, “jam session” di Lohman e Arcangeli sulla poesia e la vocalità di Marcello Sambati. In entrambi i lavori si assiste a un gioco di sottrazione di tempo e spazio; ma quello che lì era un dialogo tra esseri umani diviene ora un soliloquio assurdo e riorganizzato per assonanze magnetiche tra pavimento e pareti. Mai come in questi preziosi momenti occorre essere presenti, in un esperimento radicale che realizza un paradosso possibile solo in teatro: lasciare allo spettatore la completa libertà di interpretazione (elemento squisitamente umano) per poi tradirla subito, quando questi si trova immobile e preda di un fermo governo della più animale delle funzioni, l’attenzione. |